Lucio Giunio Bruto

Oggi è la volta di una storia che porto nel cuore da quando ero ragazzo.
Un serpente, venuto fuori da una colonna di legno, aveva provocato terrore e fuga nella reggia di Tarquinio il Superbo.
Il petto del re ansimava, e ciò non solo o non tanto per lo spavento improvviso, ma soprattutto per l'angoscia e le preoccupazioni che questa visione gli aveva provocato.
A quel tempo, a Roma, per i prodigi pubblici ci si rivolgeva ai vati, ai sacerdoti Etruschi, ma Tarquinio considerava privato questo evento inquietante e così decise di mandare qualcuno a Delfi, l'oracolo più famoso del mondo.
Il re non si fidava di nessuno, perciò mandò in Grecia due dei suoi figli: Tito e Arrunte. Il più celebre, Sesto Tarquinio, la causa della rovina del casato, restò a casa.
Quando i giovani Tarquini partirono fu mandato con loro il cugino, Lucio Giunio Bruto, figlio di Tarquinia, la sorella del re.
Bruto non era un bruto, ma fingeva di esserlo. E aveva buoni e seri motivi per farlo.
Lo zio materno, il re Tarquinio, appunto, aveva fatto uccidere gli uomini più influenti di Roma, per non rischiare che il proprio trono fosse messo in discussione. Tra gli assassinati c'era il fratello di Bruto, il nipote di sangue di Tarquinio stesso.
Il ragazzo capì che era necessario che lo zio non lo temesse, né desiderasse i suoi beni. Così glieli lasciò tutti e si espose al disprezzo, fingendosi stupido, per proteggere la propria vita. La legge non l'avrebbe protetto, l'inganno lo tenne al sicuro.
Bruto, dunque, si finse un vero bruto, uno stolto, un primitivo. Accettò il soprannome, Bruto, e sopravvisse.
In segreto aveva un progetto: liberare il popolo romano dalla tirannia.
Il ragazzo fu portato a Delfi dai Tarquini più come zimbello che come compagno. Lui però chiuse un bastone d'oro in un ramo di corniolo cavo e lo portò in dono ad Apollo, così, per dire al dio: nella mia testa di legno è celato molto di più di quanto appare; questo dono è il simbolo della mia intelligenza.