Trovate che sia giusto insegnare ai figli anche il dialetto?

Melfi, mercoledì 17 luglio 2027

Io non l'ho fatto, perché non mi è venuto in mente né ne ero capace. Oggi quel po' di dialetto residuo molti lo imparano a scuola, grazie ai compagni che lo masticano meglio.
La domanda a cui sto rispondendo l'ho trovata su un social. Tra le mille insulse, questa mi ha colpito. Perché insegnare il dialetto? Per trasmettere cultura, per me è ovvio.

Il dialetto è comunemente visto dalle mamme e dai papà come qualcosa da non insegnare ai propri figli. Come un abito da campagna che è meglio appendere in garage e servirsene solo per andare a zappare. I figli devono fare i medici, non i contadini: il dialetto non serve, il dialetto sporca.

Personalmente, considero l'italiano la mia lingua madre, l'ho imparato fino a tre anni. Nella lingua di Petrarca mi parlava mia madre, mio padre in dialetto: ho una lingua madre e un dialetto padre.
Cosa vuol dire? A modo mio sono quasi bilingue: se mi senti parlare con mio padre non capirai una parola. Pronunciamo tutto in un idioma gutturale, ricco di consonanti stridenti e povero di vocali; predominano le "u" e le "i". Non so questo quali connessioni abbia col pensiero. Sicuramente, il mio, è un dialetto chiuso, conservatore, refrattario alle novità. Il mio contrario dunque. 

Qual è dunque l'impatto che una parte linguistica dialettale ha nel pensiero della persona? Magari non ho gli strumenti epistemologici per rispondere a questa seconda domanda, ma ho da condividere la mia esperienza.
Il dialetto mi radica in un territorio, la briciola di un luogo, poco più di una zolla. 
Il dialetto mi lega umanamente ai servi della gleba. Contorto, lo so. Ma anche grazie al dialetto sono in grado di solidarizzare con generazioni di contadini legati al loro orto e poco più: una fiera ogni tanto, la messa di natale.
Il mio dialetto padre, quel che me ne rimane, ha un lessico estremamente pratico: ogni albero ha il suo nome, ogni oggetto domestico ha la sua serie consonantica, addolcita sempre poco da un numero esiguo di vocali. Predomina lo shwa, l'indistinta.
Perché, mi chiedo, su alcuni versanti del Vulture, il vulcano spento dove sono cresciuto, molte vocali sono morte? Non ho risposte. Per associazione libera penso all'autodifesa: ci si rinserra nelle valli strette o sui colli più alti per proteggere se stessi e i propri pochi beni. Così magari, l'idioma si è chiuso per non rendere comprensibile all'esterno la propria preziosissima miseria. Lo dico con profondo rispetto. Sono molto legato alle mie radici perdute.
Ringkomposition: Trovate che sia giusto insegnare ai figli anche il dialetto? Sì, ma non l'ho fatto.

2+2 fa infinito:
Il dialetto è un tesoro che stiamo nascondendo negli strati più profondi della memoria, perdendo sfumature lessicali e semantiche. Residui permangono nelle parlate regionali, ma non è la stessa cosa: il dialetto della contrada in cui sono cresciuto, simile a quello della frazione vicina era differente dal dialetto della frazione meno vicina e totalmente differente dal dialetto del paese di riferimento. Non voglio fare archeogeodialettologia, non qui. Quello che voglio è spiegare come all'abolizione dei vincoli fisici delle strade faticose da fare a piedi con mulo a capestro oggi abbiamo il mondo in tasca, letteralmente. La frammentazione degli idiomi non solo non può sopravvivere, è antieconomica, anacronistica, antistorica. Tuttavia, per me, vale la pena coltivare quel po' che ne resta: vado a trovare la vecchia nonna; non parla quasi più, ma nei suoi occhi e baciando la sua mano rivivo il senso e il sentimento di un'intera famiglia, nata lì, grazie a lei.
Francesco Verderosa