Xandaria 001.0

Gli Annali di Xandaria

Krank Amhok


Parte I: LO SCISMA DEL TESCHIO

Capitolo 1: La Fronda d’Oro

Quando l’oste chiudeva la porta, di solito molto, molto tardi, la porta restava chiusa per il resto della notte. Se eri uscito a pisciare, o a vomitare o magari ti eri appartato un po’ nel pagliaio con una delle donne facili del posto, non potevi più rientrare. Se la porta era stata chiusa, era stata chiusa. Un grosso portone di solido legno di pino, era quella l’unica apertura transitabile al pian terreno.

Le finestre di sotto erano piccole e alte, chiuse da sbarre di ferro. Difficile passarci. Del resto, di quei tempi, pensava l’oste, era meglio che chi si aggirava nel cuore della notte lasciasse in pace le brave persone; concetto, questo, che l’oste applicava indifferentemente a tutti gli ospiti della locanda. Non importava chi tu fossi, di che razza, tribù, clan o casato, non importava quanto bene tu avessi fatto o quante persone tu avessi ammazzato: se eri ospite della Fronda d’Oro, tu eri una brava persona.

Non interessavano, all’oste, nemmeno le intimazioni delle guardie, se eri suo ospite avevi diritto all’immunità perpetua, finché restavi alla locanda e pagavi puntualmente la pigione e i debiti di gioco.

L’oste riteneva che la sua locanda avesse lo stesso sacro diritto d’asilo riservato ai templi: se eri suo ospite ti avrebbe garantito protezione e riparo a tutti i costi, anche a prezzo della sua stessa vita.

Quella dei suoi figli, no! Quella era l’unica vita che riteneva più preziosa di tutte le altre.

Malgrado ciò non li viziava, non esitava a farli lavorare alla locanda, affidandogli anche i lavori più faticosi. Un giorno avrebbero ereditato la Fonda d’Oro e sarebbero stati loro a doverla mandare avanti...

«Padre, aspetta ancora per chiudere, è presto!». Rientrando dalla stalla, Tara aveva notato una certa inquietudine nel padre e si chiedeva come mai avesse così fretta di sprangare il portone.

«Non c’è bisogno di tenere aperta ancora la locanda», le rispose l’oste, «le stanze sono quasi tutte occupate e stasera nessun altro verrà a bere e a giocare. La gente ha paura di uscire di casa, ultimamente».

Era vero. Da qualche giorno in città passavano strani soggetti, vestivano un’armatura scura il cui strano elmo mascherava completamente il viso, con delle insegne mai viste da nessuno, prima di allora. Il loro simbolo era inquietante: un teschio coronato.

Si aggiravano per le strade come se annusassero l’aria alla ricerca di una preda. Perlustravano un po’ le piazze e gli edifici pubblici, poi andavano via senza dire una parola, senza parlare con nessuno. E nessuno, nemmeno le guardie, aveva il coraggio di fermarli per domandargli chi fossero, da dove venissero, chi o cosa cercassero. Ma del resto non avevano importunato nessuno in città, non ancora almeno.

Mentre pensava queste cose, l’oste aspettava ansioso che la figlia rientrasse per sprangare il portone. Purtroppo lei si era fermata e fissava il fondo del vicolo dietro l’angolo della locanda, dove l’oste da lì non poteva vedere.

«Sbrigati! Perché ti sei incantata?», gridò alla figlia. «Aspetta» rispose lei «arriva gente». Spazientito, l’oste si decise a posare l’asse che sbarrava la porta dall’interno e ad affacciarsi all’angolo. Rasentavano il muro, due figure infagottate, una più alta e dal passo armonico ma prudente, l’altra più piccola, sembrava fare da guida.

Non c’era dubbio: erano stranieri. E se erano stranieri avrebbero cercato alloggio alla locanda.

Ma che storia! Presentarsi a quell’ora... L’oste voltò loro le spalle e fece cenno alla figlia di precederlo dentro, perché lui doveva chiudere. Ma quando ormai aveva risollevato l’asse e stava per tirarsi dietro il portone, gli comparve di fronte la figura alta che aveva deciso di far dormire fuori. Lo fissava da sotto il cappuccio. Era una giovane donna, bella per giunta. Molto bella. Non diceva nulla e l’oste non sapeva risolversi. Lo sguardo di lei aveva un ché di selvaggio: era paralizzante! Non riusciva a spiccicare parola. Avrebbe voluto sbatterle il portone in faccia, ma le braccia non davano corso al pensiero.

La donna aspettò di essere raggiunta dal compagno di viaggio. Questo almeno parlava, ma era la voce di un bambino.

«Salve, signore!», fu il suo saluto, «cerchiamo un alloggio per stanotte. C’è posto?».

L’oste ancora imbambolato esitava a rispondere. “Andatevene!” avrebbe voluto dire “non c’è posto”. Ma la figlia lo precedette. «Entrate pure!» disse, spingendo il portone per spalancarlo e far passare i nuovi ospiti.

L’interno della Fronda d’Oro era caldo, il vocìo degli avventori si mescolava al fumo e all’odore dello stufato che continuava a bollire nel paiolo.

La donna e il bambino seguirono Tara, la figlia dell’oste, verso il salone da cui veniva la luce del grosso camino.

L’oste era dietro di loro: «Prego! Venite da questa parte, vi mostro la vostra stanza. È di sopra. La Fronda d’Oro è la più grande, accogliente e ospitale locanda che potrete trovare da qui a Xandaria. L’ho ereditata da mio padre. E lui da suo padre. E lui da suo padre ancora. Sono secoli che la Fronda d’Oro è governata da osti appartenenti alla mia famiglia. E i miei figli la erediteranno, e così sarà per sempre...». Aveva recuperato la parlantina con cui era solito confondere gli ospiti. Ma stavolta il confuso era lui e parlava più che altro per mascherare la propria inquietudine. Aveva brutti presentimenti: quei due stranieri portavano con sé una grande sciagura, lo sentiva! E ormai erano nella locanda, e la locanda sarebbe stata coinvolta dalla loro sciagura, finché essi sarebbero stati suoi ospiti.

Continuò a ciarlare salendo per le scale e guidando la donna e suo figlio lungo i corridoi del piano superiore, finché non arrivò alla stanza che aveva destinato loro.

Vi entrò, posò sulla panca addossata al muro le lenzuola che aveva portato con sé dal piano inferiore e accese, col fuoco della propria lanterna, una torcia appesa alla parete, di fronte all’unica finestra della stanza.

La finestra affacciava sulla strada e l’oste notò che appena entrati i due ospiti l’avevano guardata con apprensione, poi la giovane donna si era avvicinata, aveva aperto cautamente le ante di legno, sbirciando verso la strada; prima giù, poi da un lato e dall’altro, verso gli angoli della strada.

Infine aveva afferrato con decisione gli scuri e li aveva tirati verso di sé, sprangandoli e proteggendo la stanza dall’esterno; come se avesse paura che qualcuno potesse spiarli dall'esterno, anche se il livello della strada era molto in basso rispetto alla finestra.

L’oste finse di non notare questo comportamento troppo circospetto: la discrezione era la più grande qualità di un albergatore. Si accertò che i nuovi ospiti si orientassero all’interno della stanza, poi, prima di salutarli, volle sapere cosa desiderassero per cena. Quelli chiesero se fosse possibile consumare un pasto freddo nella loro stanza, poi gli fecero capire che non avevano bisogno d’altro e avrebbero preferito restare soli.

Per tutto il tempo, il solo a parlare, tra i due, era stato il ragazzo. La donna si limitava a confermare con lo sguardo.

Quando era tardi, dopo che tutti gli ospiti avevano consumato la cena e chi non andava a letto presto restava a giocare e a bere nel salone del camino grande, a servirli restava solo l’oste.

continua...