Xandaria 001.1 Notte nella Locanda

Quando era tardi, dopo che tutti gli ospiti avevano consumato la cena e chi non andava a letto presto restava a giocare e a bere nel salone del camino grande, a servirli restava solo l’oste.

I suoi figli raggiungevano la nonna in cucina, e dopo averla aiutata a sistemare e ripulire, se ne stavano con lei accanto alla stufa, fino a quando il folletto del sonno non veniva a soffiare sui loro occhi.

«Nonna, un mio amico più grande oggi mi ha detto che di notte, in città, si vedono le arpie in giro, ma cosa sono le arpie?».

«Sei uno sciocco credulone!»

Il suo fratellino credeva sempre a tutte le storie che gli propinavano i ragazzini più grandi. Quelli si divertivano un mondo a prenderlo in giro. Tara non credeva a nessuna di quelle storie, non ci aveva mai creduto. Tara credeva solo a quello che poteva vedere, il resto per lei non aveva importanza.

«Non essere cattiva con lui» intervenne la nonna. «Fa bene ad essere curioso, è il modo migliore per conoscere il mondo. E tu, dovresti avere più fiducia degli altri. Tuo nonno, buonanima, mi raccontò che una volta un viaggiatore di passaggio alla locanda diceva di essere sopravvissuto all’attacco di un’arpia. Gli aveva mostrato pure le cicatrici che portava ancora, a ricordo di quella brutta esperienza».

«Ma per favore, nonna! Non mi dirai forse che davvero dai retta a queste favole?»

«Ma va là! I confetti li mangi ancora lo stesso, no?»

«Si, ma che c'entra!»

«Ascolta. Ascoltatemi tutti e due. Un tempo, il mondo non era degli uomini. Non solo, almeno. La terra di Xandar era calpestata dai piedi di strane creature, alcune simili agli uomini ma diversi per le dimensioni, come i nani, altre terribili, enormi e mostruose, come i draghi, altre misteriose e sfuggenti, tali che già allora solo pochi avevano la fortuna di vederli, e questi erano gli spiriti della foresta».

“Nani, draghi, satiri... uffa!” quando la nonna cominciava con la solita tiritera del magico mondo degli antichi, Tara si scocciava sempre e cominciava a non ascoltare più, a pensare ai fatti suoi. Ma stavolta questa storia delle arpie in città la incuriosiva, perché riguardava finalmente il suo mondo, non quello dei soliti antichi.

Ultimamente in città c’erano strani tizi che andavano in giro, e le era venuto il sospetto che non si trattasse di semplici uomini mascherati, ma di qualcosa di diverso, di innaturale e inquietante. Perciò decise di partecipare alla conversazione, anche se le seccava che la nonna partisse, come al solito, dal tempo dei draghi. Perciò tagliò corto.

«Avanti nonna! Jan ti aveva chiesto cos’è un’arpia, non cominciare coi tuoi soliti elenchi senza fine di magiche creature».

La nonna voleva un gran bene a Tara, perciò chiudeva sempre un occhio quando il suo carattere schietto la faceva sembrare irrispettosa. Era tutta sua madre, in questo.

«E va bene, va bene. Le arpie... secondo le antiche leggende, che quando ero piccola un cantastorie venuto da...»

«Nonna!»

Questa volta anche il fratellino si era unito alla protesta di Tara.

«Ehm, le arpie, dicevo, sono creature venute dal buio di Stige, figlie dell’ombra. Nessuno ha mai saputo descriverle con precisione. I pochi che sono sopravvissuti all’incontro con un’arpia erano talmente sconvolti dall’esperienza da non ricordare quasi niente di quello che gli era successo. Al massimo hanno raccontato di aver sentito artigli di rapace sulla pelle e visto pallidi volti di donna, senza espressione, che li fissavano assenti, mentre tentavano di carpirgli la vita...»

«Basta, basta, nonna, ho paura!».

Il piccolo Jan aveva interrotto le spiegazioni di sua nonna, affondando il viso nel suo grembo, terrorizzato.

La nonna aveva reagito d’istinto, tranquillizzandolo con delle carezze sulla nuca, scompigliandogli i [corti/ricci]* capelli neri.

«Andate a letto, ora: è tardi!» disse ai nipoti.

Ma quelli protestarono per ragioni diverse.

«Io ho paura» si lagnò il piccolo «come faccio a dormire adesso?»

Tara era di avviso diverso, voleva i particolari e non era disposta ad aspettare la sera successiva, perciò insistette: «Forza, nonna, non puoi interrompere così il tuo racconto, voglio saperne di più».

«Non essere troppo curiosa, bambina» rispose la nonna «certe storie ti attraggono e ti entrano dentro; così ti catturano e ti fanno entrare nel loro mondo al punto che anche volendo, poi, non potrai più liberartene. Ed ora a letto, forza!»

Poggiandosi al bordo della panca, la nonna fece per alzarsi e mandare a letto i nipoti con [delle] pacche affettuose. Tale imperio non ammetteva repliche. I due nipoti si avviarono a malincuore verso la loro stanza, mentre la nonna gettava la cenere sull’ultima fiamma, per conservare la brace.

Faceva questo gesto con estrema cura. Il fuoco del camino, per lei, sembrava avere un grande valore, quasi sacro; al di là di quello che gli usi domestici lasciavano supporre.


Intanto, al piano superiore, qualcuno viveva le vecchie storie degli antichi molto da vicino. Si trattava di una giovane donna e di un ragazzo, poco più di un bambino. Stavano sfuggendo all’inseguimento di esseri misteriosi, innaturali, venuti da un mondo che non era il loro. Le arpie.

«Ho chiuso la finestra».

«Hai fatto bene, madre».

«Stanotte verranno, ne sono sicura».

«Sì, madre. Ma non ci troveranno. Abbiamo confuso per bene le nostre tracce e di sicuro cercheranno per tutta la notte senza avvertire la nostra presenza. E poi lo sai, se la finestra resta chiusa non hanno il potere di entrare, l’abbiamo sigillata con il segno di Ermes».

«Domani faremmo meglio a partire».

«No madre, ci hanno detto di aspettare qui l’arrivo della guida. Se ci allontaniamo non sapremo mai dove andare».

«Qui è pericoloso, qui la morte può trovarci».

«Prima che la morte ci trovi, noi saremo lontani. Dobbiamo avere fiducia».

Sua madre era cresciuta in un mondo selvaggio e faceva fatica a restare ferma in un luogo privo di possibili vie di fuga, la faceva sentire in trappola. Ma Hok non poteva biasimarla, era abituata a cavarsela da sola, a non contare mai su nessuno.

La donna si avvicinò al ragazzo e gli prese il viso tra le mani. Lo fissò intensamente, con uno sguardo deciso, profondo, tranquillizzante.

«Riposa, ora» gli disse.

Hok non se lo fece ripetere due volte, il tempo di sdraiarsi e già dormiva tranquillo, reso sereno dalla rassicurante presenza accanto a lui della donna cui doveva la propria esistenza.

Kyala, invece, non aveva intenzione di dormire, restò seduta a terra, con le gambe incrociate e le mani puntate a terra. Pronta a balzare in meno di un attimo.

Non si fidava di quel disegno che il figlio aveva tracciato a ridosso della giuntura dei due scuri della finestra, due linee intrecciate e unite da un lato.

Attese gran parte della notte, vigile, immobile.

Da lontano aveva cominciato a percepire alcuni versi allarmanti, come dei lamenti di donna, o come delle strida di rapace.

Ascoltando quei versi riusciva a ricostruire i movimenti delle arpie nel buio della città. Quelle ombre inquiete stavano perlustrando tutto l’abitato.

Roteavano in alto, poi, attraverso cerchi in volo sempre più stretti, calavano lungo gli angoli delle strade; ne percorrevano le svolte, annusando il buio alla ricerca di una minima traccia della loro preda, di una minima traccia di Hok.

A un tratto si sentì scuotere dall’esterno. La finestra sprangata tremava. Gli scossoni erano furtivi, quasi dei graffi. Kyala era sicura, il segno di Ermes era inutile, non li avrebbe protetti da quegli oscuri mostri.

L’ombra delle arpie stava per calare sulle loro vite.

Restò immobile, pronta a scattare, a difendere con le unghie la vita di Hok.

Il ragazzo, invece, dormiva sereno, si girò dall’altro lato del letto, senza avvertire minimamente la sciagura che si stava abbattendo sulla locanda.

Anche dal corridoio si avvertivano alcuni fruscii sospetti, ma quando ormai Kyala, per l’impazienza, stava per scattare su e spalancare la finestra per affrontare l’arpia, ecco che i rumori dall’esterno cessarono.

Da fuori si sentì in lontananza come lo strillo lancinante di una donna in lutto.

Poi più niente.

Il segno di Ermes che Hok aveva tracciato, sia sulla finestra sia sulla soglia, li aveva protetti davvero[,] e l’unico pericolo che avevano corso era che lei potesse cedere al panico e all’ansia, offrendo all’arpia la via per entrare nella stanza.

Kyala si ripromise di essere più fiduciosa nelle arti magiche del figlio, quelle che dovevano affrontare non erano creature terrene e l’istinto non era di alcuna utilità, anzi poteva essere pericoloso fidarsi troppo.


Il giorno dopo, all’alba, l’oste riaprì i battenti della Fronda d’oro.

Era un’alba splendida, radiosa. Ma un brivido insolito gli percorse la schiena, quando notò il cancelletto scardinato del cortile, sul retro dell’osteria.

Qualcuno era entrato e si era avvicinato all’edificio senza preoccuparsi di lasciare il segno del proprio passaggio.

Si mise a perlustrare le pareti della sua osteria, notò al secondo piano il legno scrostato di una finestra e si ripromise di riverniciarlo il giorno stesso. Poi si riscosse e rientrò per avviare le faccende quotidiane. Di là in cucina la nonna già accendeva il fuoco per preparare la colazione per gli ospiti.

Mentre si accingeva a rientrare, però, l’oste fu trattenuto dalla voce di un passante.

«Stanotte, sulla città è piovuta sciagura!»

«Buongiorno anche a te, amico mio. Non lo sai che porta male aprire la conversazione portando cattive notizie?»

«Ehm, scusami» rispose quello «ma sono troppo sconvolto».

«Che è successo di tanto tremendo, parla».

«Passavo nei pressi del cimitero per andare al lavoro e ho visto un sacco di gente intorno ai cancelli».

«Ebbene, sarà l’anniversario di qualche battaglia e i parenti si sono riuniti per la celebrazione...»

«No, aspetta, non ho finito. Passavo per il cimitero, dicevo, perché è sulla strada che faccio ogni mattina presto, e di solito all’ora in cui passo io non vedo mai nessuno. Solo il custode, qualche volta, comincia ad aprire i cancelli. Ma stamattina sembrava che ci fosse la fiera, nel campo santo. Così mi è venuta voglia di sapere che era successo e mi sono avvicinato. Lì vicino erano tutti costernati.

«La porta della casa del custode era spalancata e qualcuno diceva che dentro c’era lui, steso a terra ai piedi del letto, morto, in una pozza di sangue, con dei profondi segni sulla schiena, come di artigli.

«Ma la cosa più angosciante era successa dentro il cimitero. A quanto pare qualcuno stanotte ha scavato tutte le sepolture, ha scoperchiato le tombe, ha profanato gli ossari, ha messo tutto sottosopra. Non ho avuto il coraggio di entrare, ma chi ci era stato ha detto che lo spettacolo era allucinante. Scheletri e cadaveri erano stati tirati fuori dal loro ricovero, ma solo per la metà superiore, e a tutti era stato portato via il cranio.

«Una cosa spaventosa. Hanno portato via le teste dei nostri morti!»

L’oste non voleva credere al racconto di quel passante stralunato, pensò ad uno scherzo e gli voltò le spalle lasciandolo a sé stesso e al suo sconvolgimento senza neppure salutarlo. Ma quando in lontananza udì il fragore di un drappello di armigeri a cavallo e poi li vide comparire in lontananza e correre in direzione del cimitero, cominciò a sospettare che forse la notizia non era solo il frutto dei postumi di un ubriaco.


La giornata trascorse nella tensione generale. L’oste aveva evitato di diffondere la notizia presso i suoi ospiti e aveva impedito ai suoi figli di mettere il naso fuori casa. Ma questo li aveva resi inquieti, di solito non c’erano vincoli per la loro libertà, se non le esigenze di servizio all’osteria.

Quando la notizia arrivò, portata da un venditore di ortaggi, l’angoscia si impadronì di tutti. Alcuni uscirono subito per cercare di saperne di più, altri, impauriti, non vollero uscire per tutto il giorno. I due inquilini arrivati la sera precedente forse non seppero proprio nulla di tutto ciò, perché non uscirono dalla loro stanza se non quando fu di nuovo sera, per la cena. Prima di allora nessuno li vide nell’osteria. A parte Tara, che verso mezzogiorno aveva bussato alla loro stanza per prendere le ordinazioni per il pranzo.

Quando bussò di nuovo alla loro stanza per il pasto serale, invece, a Tara la porta non fu aperta, ma si sentì rispondere di non preoccuparsi, che sarebbero scesi giù nella sala comune.

Tara girò sui tacchi e scese ad avvisare la nonna di preparare il pasto comune anche per quegli ospiti poco socievoli.

...continua