Xandaria 004 - Capitolo 2, parte II: l'Arpia

Il tavolo di Hok e di sua madre era vicino al grande camino, oltre il punto dove sedeva la combriccola di Gil. I due si avviarono per prendere posto e intanto la donna suscitava sempre più attenzione. Nei suoi passi c’era qualcosa di selvaggio, di pericoloso e accattivante. Alcuni dei presenti azzardarono qualche complimento; qualcuno fischiò sommessamente. Lei li ignorò tutti e seguì suo figlio a tavola.

I due cenarono quasi completamente in silenzio. Ogni tanto si scambiavano cenni e raramente qualche parola, ma sempre a voce bassa, troppo bassa perché Gil potesse origliare per bene. Quei due lo incuriosivano assai, non solo per il fascino che diffondeva la donna nella stanza. Il ragazzo aveva qualcosa di misterioso negli occhi; il suo sguardo denotava una maturità inconsueta, come se nel suo corpo acerbo albergasse la mente di un vecchio saggio.

Verso la fine della cena, Gil si avvicinò a loro, non poteva resistere: doveva saperne di più su quei due, e l’unico modo per farlo era di chiedere notizie direttamente alla fonte. Nessun altro li conosceva lì, nemmeno l’oste, che si era limitato a dichiarare che la donna e suo figlio erano arrivati da poco e che per quanto lo riguardava avrebbe fatto a meno di ospitarli, perché gli davano l’impressione di portare grossi guai con sé. Ad ogni modo il contrabbandiere aveva deciso di indagare: se quei due scappavano avrebbero potuto avere bisogno di una guida che gli assicurasse un viaggio sicuro.

Poteva essere un’occasione alternativa per un nuovo ingaggio, visto che il suo committente tardava ormai a farsi vedere.


«Buona sera» azzardò Gil alla volta dei due.

Sorprendentemente la loro reazione non fu scontrosa come si aspettava, anzi. La risposta del ragazzo fu cordiale oltre ogni aspettativa: «Buona sera a lei, signore. Io sono Hok di Garlandia e questa è mia madre, Kyala».

Gil si avvicinò ancora di più al loro tavolo: «Salve, Hok di Garlandia. I miei omaggi, signora. Io sono Gilbanipal. Potete chiamarmi Gil, per servirvi. Ecco, ho notato che siete nuovi del posto e che avete suscitato una certa attenzione, qui; soprattutto in quel gruppo di viaggiatori accampati a quel tavolo in fondo, sotto la finestra. Quelli là, con quelle lunghe barbe scure. Ho pensato di avvertirvi, nel caso non ve ne foste accorti: è gente pericolosa, quella, sotto i loro mantelli ho notato impugnature di daghe e spade...»

«Grazie dell’avvertimento, signore».

«Oh, per favore, chiamami Gil, non sono abituato a sentirmi chiamare “signore”, mi metti a disagio».

«Va bene... Gil, faremo attenzione».

«Ehm, un’altra cosa. Io conosco bene sia la città che i suoi dintorni fino a Xandaria. Se avete bisogno di una accompagnatore, io sono a disposizione».

«Perché» ribatté Hok «anche tu sei in viaggio verso Xandaria?»

«No, ma vedete, io lo faccio per mestiere. Sono, come dire, un trasportatore per professione e trasporto soprattutto merci delicate, che bisogna far viaggiare con molta cura e soprattutto senza destare troppo l’attenzione delle autorità. Non so se mi sono spiegato».


Per tutto il tempo Gil aveva notato che la donna taceva e si limitava a seguire con attenzione il discorso, approvando con gli occhi quello che il figlio diceva. Ma ora interruppe il silenzio con un asciutto: «Grazie, non serve».

Hok intervenne a mitigare i termini secchi in cui sua madre si era espressa: «Vedi, Gil, noi viaggiamo sempre da soli. Non c’è mai stato bisogno di una guida, perciò non devi preoccuparti per noi. Anche perché il nostro viaggio finisce qui, per ora. Dobbiamo incontrare una persona proprio a Sadula».

«Come preferite, io resto ai vostri ordini, in ogni caso».

«Grazie, Gil, sei stato molto gentile».

Quest’ultima risposta di Hok sembrava avere il tono deciso di un commiato, pertanto il contrabbandiere indietreggiò e infine riprese il proprio posto al suo tavolo. Lì i suoi compagni avevano già cominciato a giocare a dadi e lui si unì a loro senza pensarci più, per il momento.

Quando si ricordò di loro e si voltò per sbirciarli, si accorse che se n’erano andati: il loro tavolo era deserto e Tara stava già ripulendo.


Fuori, intanto, al buio del primo quarto di luna, nove figure armate e ammantate di nero si confondevano nella notte. Voran continuava a perlustrare i dintorni della Fronda d'Oro, senza sapersi risolvere a prendere una decisione operativa.

L'assalto in forze era da escludersi: il luogo non si prestava ad un’azione pulita ed efficace e la superiorità numerica non avrebbe garantito affatto il buon esito.

Le sue spie, inoltre, lo avevano avvertito della presenza di armigeri in incognito tra gli ospiti dell'albergo. Non sapeva perché fossero lì né come avrebbero reagito a un assalto.

Anche perché, a quanto pareva, i suoi Necro non erano più quelli di una volta.

Questo lo pensò osservando di traverso i movimenti scomposti dell'ultimo arrivato tra i suoi militi.

Era stato animato da uno dei teschi saccheggiati al cimitero di Sadula. Lo pensò con disprezzo.

I negromanti al seguito del suo esercito dovevano aver commesso un qualche errore, forse per la fretta di rinfoltire in breve le schiere, forse perché i migliori rubini di Durmion scarseggiavano, a quella distanza dalla base.

Fatto sta che quel necrocefalo, Gesab, si comportava in modo strano, scomposto. Era sempre l'ultimo a mettersi in marcia e urtava i compagni nel movimento.

Non era mai coordinato. Cosa strana per i Necro, che si muovevano all'unisono sempre, come se avessero una sola mente. Quella di Voran.


Mentre era assorto nelle sue meditazioni sulle difficoltà strategiche di quell'impresa, il capo dei Necro sentì un brivido, come acqua gelata sulla nuca. Le arpie! Lo sentiva sempre quando ce n'era qualcuna in giro.

Ora, di sicuro, nel cielo di quella notte, il volo di quelle ombre spietate gelava l'atmosfera di Sadula.

Alzò gli occhi al cielo, ne sentiva la presenza, ma ancora non ne scorgeva il profilo.

Poi ad un tratto vide. Ne vide il profilo che tagliava una nube, al riverbero della luna. Tre coppie di ali in formazione. Roteavano.

Un verso.

Qualcosa a metà tra lo strillo acuto di un nibbio e il lamento agghiacciante di una donna in lutto, una prefica.

Alla fine, uno di quei mostri volatili lasciò la traiettoria dello stormo e cominciò a scendere a giri sempre più stretti.

Sparì in picchiata dietro l'alta torre di un palazzo. Non la vide più.

Riemerse alle sue spalle dall'altro lato dell'edificio, in volo radente, con quegli artigli famelici protesi in avanti.

Come l'aquila che piomba sulla nuca del lupo, l'arpia atterrò proprio alle spalle del capo dei Necro, mentre lui si voltava, percependo il suo volo.


La scena che seguì fu un concilio di ombre. Non una parola fu scambiata, non ce n'era bisogno.

L'istinto del male che accomunava i due esseri delle tenebre, Voran e l'arpia, il lupo e il rapace di Durmion, permetteva loro di comunicare solo guardandosi.

In quel buio, in quel silenzio, si svolse una tesa e fitta conversazione.

L'arpia portava un messaggio di Korak, l'Essere Oscuro che aveva rianimato le Ombre dei Morti.

Korak era molto scontento.

Perfino lo sguardo vuoto, inespressivo dell'arpia parve turbarsi al nome della Guida delle Ombre.

La reazione di Voran fu più enfatica, indietreggiò di due passi. Poi riprese contegno, non voleva mostrarsi debole agli occhi della messaggera e dei soldati.

Chiese spiegazioni.

L'arpia completò l'ambasciata. Korak voleva che si agisse immediatamente. Troppi giorni erano passati senza che i Necrocefali fossero riusciti a mettere le mani su Hok.

Quel bambino era indispensabile al compimento del Risveglio e non erano ammessi ulteriori ritardi.

C'era una potenza enorme, proteggeva la Fronda d'Ora. Korak l'aveva sentito grazie a Zoila, la sua prima ancella. Entrare nella Locanda era fuori luogo.

Bisognava stanarli e separare il piccolo dal gruppo che lo proteggeva. E Voran, il Lupo di Durmion, era l'uomo giusto per quella missione. Korak aveva ancora fiducia in lui.

Ancora, ma non per molto.

Voran chinò il capo.

L'arpia stese le ali e con un solo battito fu già in aria, verso l'alto, il cielo, verso le compagne.